IMPRESSIONI DELLO SCRITTORE 2019 | SARASSO AL TOR 2019
DAY 3 – DOMENICA 08.09.19
Oggi è il giorno in cui tutto ha inizio.
E ogni inizio è timido e indeciso. O, almeno, i miei sono così.
Gli approcci con le ragazze, soprattutto, fin da quando portavo l’apparecchio ai denti.
I primi giorni di scuola.
Dopo tre anni, dovrei smetterla di raccontare la “mia prima volta al TOR”.
Eppure rieccomi qui, in una stanza imbottita di silenzio, davanti alla luce blu del PC, in una casa che non ho mai visto prima, a battere sui tasti contando sospiri e gocce asciutte sui vetri.
Sbirciando appunti e rimuginando sull’ennesimo DAY 0.
La giornata è cominciata presto, sotto uno scroscio inatteso che mi ha sciacquato i pensieri densi di città, e di lavori non finiti da lasciare dove stanno.
Le mie vecchie All Star si sono inzuppate presto, ricordandomi che, per i prossimi otto giorni, le strade che calpesterò non si faranno domare facilmente. E magari è meglio che mi attrezzi.
Coi piedi gelati e qualcosa da rimproverarmi sono entrato in sala stampa all’ora di pranzo.
Al primo piano la distribuzione dei pettorali del Tor des Glacier era iniziata da poco.
Volti contratti, e pettorali striati d’azzurro.
Sacche color del cielo, e denti stretti.
Ho letto da qualche parte che la percentuale di popolazione mondiale con gli occhi azzurri ammonta appena al 2%. Più mi guardo intorno, più mi rendo conto che una bella fetta di quel due per cento, per un motivo o per l’altro, s’è data appuntamento qui.
Dev’essere un segno, il karma che whatsappa senza preavviso.
Sono azzurri gli occhi di Erica, che – c’è da scommetterci – si sbatte da quando è sorto il sole. È agitata e felice, e si stringe nella giacchetta turchese (ça va sans dire) perché oggi le temperature sono davvero all’arma bianca.
E sono azzurri quelli di Davide, che mi racconta un pezzo di vita, in coda per recuperare quel numero che lo autorizzerà a perdersi e trovarsi, camminando tra le sue montagne per i prossimi giorni.
“Pensa che non lo dovevo neanche fare il Glacier, io… m’han ripescato venti giorni fa. Avevo fatto un casino col pagamento quando mi sono iscritto, e giustamente m’avevano escluso. E poi, un pomeriggio che scendevo dal Bianco, m’è arrivata una mail e m’è esplosa in faccia questa magia”.
Un regalo terribile e meraviglioso.
Già, perché Davide se l’era messa via da un pezzo la faccenda della gara. E aveva dedicato l’estate all’alpinismo, al lavoro, alla famiglia. Maledicendosi un pochino ogni giorno per non essere stato sufficientemente attento, quando ce n’era bisogno.
Ma il Fato aveva in serbo una sorpresa.
E, a sole tre settimane dalla partenza, ecco che arriva il miracolo: BUM, sei dentro.
E adesso?
E adesso si sogna e si corre, si scaricano le tracce gps, si immagina tutto quello che può stare nello zaino e quello che proprio non ci va. Si spera e si prega, e si morde il freno perché la partenza è tra un numero di ore che sta comodo sulle dita di una mano, ormai.
“Insomma, si va” mi dice col sorriso sulle labbra.
Uno di quelli che non dimentichi, perché sa d’avventura autentica.
Parliamo un altro po’ prima che esca. Mi racconta del suo primo TOR.
Quando si ciancia di questo viaggio miracoloso e unico, è facile che il discorso scivoli sul Malatrà.
L’ultimo dei colli. Quello che, se lo scavalchi, significa che ce l’hai fatta.
Che il sogno è davvero a portata di mano.
“Quando finalmente ci sono arrivato, in gara, mi sono messo a piangere…” mi dice con un filo di voce.
Capita a tutti.
Mentirei se dicessi che non è capitato anche a me. E non avevo neppure un pettorale addosso.
“Ma sai cos’ho fatto, dopo che mi sono asciugato le lacrime? Ho svuotato le borracce, mi son liberato del superfluo e ho iniziato a correre. Correvo come un bambino, hai presente? Come un puledro al galoppo.
Con trecento chilometri sulla gobba, capisci? Ancora oggi, se ci penso, non lo so perché. Non è che volessi fare il tempone, eh. È che… m’è esploso qualcosa dentro, non ti so spiegare. So solo che eravamo lì, io e il Bianco, a guardargli negli occhi. E m’è venuto da correre e non fermarmi più, fino al traguardo”.
Secondo me perfino il Monte Bianco ce le ha azzurro ghiaccio, le iridi.
Proprio come quelle Davide.
Quest’uomo gentile e affilato come l’acciaio, che stasera parte per un’avventura che nessuno ha mai vissuto prima.
Se il Tor des Géants® ha avuto la sua Edizione Zero, lo stesso non si può dire del Glacier.
Gli eroi in frontale e bastoncini che stanno per lasciare Courmayeur sono pionieri.
Lo dicono chiaro e tondo, in ben tre lingue, gli speaker entusiasti.
Li chiamano “Argonauti”.
Il briefing pre-partenza è un impasto di cura e apprensione.
L’organizzazione ha risposte precise a ogni domanda, ma i concorrenti non lesinano coi dubbi.
L’aria è intrisa del ricordo della pizza consumata a pranzo.
Le teglie vuote ingombrano i tavoli nudi, uomini e donne hanno gli occhi puntati su Alessandra.
La dama del TOR ha responsi per tutti. Chiari ed esaustivi.
Alla fine della lunga chiacchierata c’è una voglia matta di correre a infilarsi le termiche e le frontali, di riempire le sacche, consegnarle e partire.
Partire, sì. Che l’attesa è ghiaccio sul cuore.
Scendo verso il Jardin de l’Ange, sgranocchio la sfilata dei top runner con uno sguardo all’orologio perché non manca molto, ormai.
E poi mi perdo tra le immagini e gli echi del film che celebra questi dieci anni unici.
Là dentro c’è il TOR in dieci parole, raccontato con amore, dolcezza e intensità.
E son giuste, quelle parole, giustissime: l’ATTESA, LA LUCE, IL BUIO, LA NATURA, LA FATICA, LA GIOIA, LA GLORIA e qualche altra che mi son perso per la strada.
Ma il TOR è troppo grande, e a me spacca il cuore.
E dieci parole non bastano per dire tutto quel che sento quando torno a calpestare queste pietre.
Quando son qui, al centro del mondo, e il mondo sta per deflagrare.
“Dieci secondi alla partenza” urla Ivan nel microfono.
E di colpo son tutti lì, in quei pochi metri di transenne, zaini e bastoncini.
Con la voglia di andare che scalcia nel petto.
E intorno occhi lucidi di mogli, sorelle e fidanzate, le pacche sulle spalle degli amici, le nocche che sbattono contro le nocche, l’ultimo selfie, e… amore, me lo dai un altro bacio?
La voce è del ragazzo che chiude la fila degli Argonauti. Ha la frontale già accesa, perché là fuori il buio si prenderà ogni cosa. E lo farà presto.
Lei non risponde, ma appoggia le labbra sulle sue.
Ha un minuscolo tatuaggio sulla nuca che le dona da morire.
Rimangono così, incollati per tutto il tempo che resta.
Poi l’uno diventa zero, e la musica esplode.
Gli Argonauti sono in viaggio.
Anche ora, mentre là fuori è solo silenzio e miei tasti urlano così forte che ho paura di svegliare i vicini, loro stanno marciando.
Ci ho pensato per tutta la cena, e non riesco a smettere.
Ho mangiato arrosto e cipolline con un gruppo di atleti cinesi che sorseggiavano Amarone della Valpolicella.
I loro sorrisi erano di pane.
Hanno attraversato l’oceano per bagnarsi le labbra in quei calici, e non sembrano ricordarsi che tra meno di quarantotto ore avranno addosso una trapunta di stelle, e troppa strada da immaginare.
Gli Argonauti marciano ed eroi da settantaquattro paesi del mondo si son dati appuntamento in questo santuario d’ardesia, led, polvere e sassi per sfidare i Giganti.
Presto, troppo presto, anche per loro la musica salirà alta, fino a deflagrare.
Penso al silenzio, in questa notte imbottita di sogni agitati.
E al rumore dei passi di quel ragazzo, sulla linea di partenza.
Non ho nemmeno annotato il suo numero di pettorale. Ma saprò riconoscerlo, se incontrerò il suo sguardo infuocato.
La starà ancora pensando, adesso?
E lei? Sarà riuscita a prendere sonno?
Buon viaggio, Argonauti.
Il Vello d’Oro è proprio qui, dove tutto ha avuto inizio.
Ma, per afferrarlo, dovrete compiere un cammino che nessuno, finora, ha avuto il coraggio d’intraprendere.
Perché, dopotutto, immaginare l’impossibile, chiudere gli occhi e perdersi, è l’unico modo per tornare a casa.
DAY 3 – DOMENICA 08.09.19
Oggi è il giorno in cui tutto ha inizio.
E ogni inizio è timido e indeciso. O, almeno, i miei sono così.
Gli approcci con le ragazze, soprattutto, fin da quando portavo l’apparecchio ai denti.
I primi giorni di scuola.
Dopo tre anni, dovrei smetterla di raccontare la “mia prima volta al TOR”.
Eppure rieccomi qui, in una stanza imbottita di silenzio, davanti alla luce blu del PC, in una casa che non ho mai visto prima, a battere sui tasti contando sospiri e gocce asciutte sui vetri.
Sbirciando appunti e rimuginando sull’ennesimo DAY 0.
La giornata è cominciata presto, sotto uno scroscio inatteso che mi ha sciacquato i pensieri densi di città, e di lavori non finiti da lasciare dove stanno.
Le mie vecchie All Star si sono inzuppate presto, ricordandomi che, per i prossimi otto giorni, le strade che calpesterò non si faranno domare facilmente. E magari è meglio che mi attrezzi.
Coi piedi gelati e qualcosa da rimproverarmi sono entrato in sala stampa all’ora di pranzo.
Al primo piano la distribuzione dei pettorali del Tor des Glacier era iniziata da poco.
Volti contratti, e pettorali striati d’azzurro.
Sacche color del cielo, e denti stretti.
Ho letto da qualche parte che la percentuale di popolazione mondiale con gli occhi azzurri ammonta appena al 2%. Più mi guardo intorno, più mi rendo conto che una bella fetta di quel due per cento, per un motivo o per l’altro, s’è data appuntamento qui.
Dev’essere un segno, il karma che whatsappa senza preavviso.
Sono azzurri gli occhi di Erica, che – c’è da scommetterci – si sbatte da quando è sorto il sole. È agitata e felice, e si stringe nella giacchetta turchese (ça va sans dire) perché oggi le temperature sono davvero all’arma bianca.
E sono azzurri quelli di Davide, che mi racconta un pezzo di vita, in coda per recuperare quel numero che lo autorizzerà a perdersi e trovarsi, camminando tra le sue montagne per i prossimi giorni.
“Pensa che non lo dovevo neanche fare il Glacier, io… m’han ripescato venti giorni fa. Avevo fatto un casino col pagamento quando mi sono iscritto, e giustamente m’avevano escluso. E poi, un pomeriggio che scendevo dal Bianco, m’è arrivata una mail e m’è esplosa in faccia questa magia”.
Un regalo terribile e meraviglioso.
Già, perché Davide se l’era messa via da un pezzo la faccenda della gara. E aveva dedicato l’estate all’alpinismo, al lavoro, alla famiglia. Maledicendosi un pochino ogni giorno per non essere stato sufficientemente attento, quando ce n’era bisogno.
Ma il Fato aveva in serbo una sorpresa.
E, a sole tre settimane dalla partenza, ecco che arriva il miracolo: BUM, sei dentro.
E adesso?
E adesso si sogna e si corre, si scaricano le tracce gps, si immagina tutto quello che può stare nello zaino e quello che proprio non ci va. Si spera e si prega, e si morde il freno perché la partenza è tra un numero di ore che sta comodo sulle dita di una mano, ormai.
“Insomma, si va” mi dice col sorriso sulle labbra.
Uno di quelli che non dimentichi, perché sa d’avventura autentica.
Parliamo un altro po’ prima che esca. Mi racconta del suo primo TOR.
Quando si ciancia di questo viaggio miracoloso e unico, è facile che il discorso scivoli sul Malatrà.
L’ultimo dei colli. Quello che, se lo scavalchi, significa che ce l’hai fatta.
Che il sogno è davvero a portata di mano.
“Quando finalmente ci sono arrivato, in gara, mi sono messo a piangere…” mi dice con un filo di voce.
Capita a tutti.
Mentirei se dicessi che non è capitato anche a me. E non avevo neppure un pettorale addosso.
“Ma sai cos’ho fatto, dopo che mi sono asciugato le lacrime? Ho svuotato le borracce, mi son liberato del superfluo e ho iniziato a correre. Correvo come un bambino, hai presente? Come un puledro al galoppo.
Con trecento chilometri sulla gobba, capisci? Ancora oggi, se ci penso, non lo so perché. Non è che volessi fare il tempone, eh. È che… m’è esploso qualcosa dentro, non ti so spiegare. So solo che eravamo lì, io e il Bianco, a guardargli negli occhi. E m’è venuto da correre e non fermarmi più, fino al traguardo”.
Secondo me perfino il Monte Bianco ce le ha azzurro ghiaccio, le iridi.
Proprio come quelle Davide.
Quest’uomo gentile e affilato come l’acciaio, che stasera parte per un’avventura che nessuno ha mai vissuto prima.
Se il Tor des Géants® ha avuto la sua Edizione Zero, lo stesso non si può dire del Glacier.
Gli eroi in frontale e bastoncini che stanno per lasciare Courmayeur sono pionieri.
Lo dicono chiaro e tondo, in ben tre lingue, gli speaker entusiasti.
Li chiamano “Argonauti”.
Il briefing pre-partenza è un impasto di cura e apprensione.
L’organizzazione ha risposte precise a ogni domanda, ma i concorrenti non lesinano coi dubbi.
L’aria è intrisa del ricordo della pizza consumata a pranzo.
Le teglie vuote ingombrano i tavoli nudi, uomini e donne hanno gli occhi puntati su Alessandra.
La dama del TOR ha responsi per tutti. Chiari ed esaustivi.
Alla fine della lunga chiacchierata c’è una voglia matta di correre a infilarsi le termiche e le frontali, di riempire le sacche, consegnarle e partire.
Partire, sì. Che l’attesa è ghiaccio sul cuore.
Scendo verso il Jardin de l’Ange, sgranocchio la sfilata dei top runner con uno sguardo all’orologio perché non manca molto, ormai.
E poi mi perdo tra le immagini e gli echi del film che celebra questi dieci anni unici.
Là dentro c’è il TOR in dieci parole, raccontato con amore, dolcezza e intensità.
E son giuste, quelle parole, giustissime: l’ATTESA, LA LUCE, IL BUIO, LA NATURA, LA FATICA, LA GIOIA, LA GLORIA e qualche altra che mi son perso per la strada.
Ma il TOR è troppo grande, e a me spacca il cuore.
E dieci parole non bastano per dire tutto quel che sento quando torno a calpestare queste pietre.
Quando son qui, al centro del mondo, e il mondo sta per deflagrare.
“Dieci secondi alla partenza” urla Ivan nel microfono.
E di colpo son tutti lì, in quei pochi metri di transenne, zaini e bastoncini.
Con la voglia di andare che scalcia nel petto.
E intorno occhi lucidi di mogli, sorelle e fidanzate, le pacche sulle spalle degli amici, le nocche che sbattono contro le nocche, l’ultimo selfie, e… amore, me lo dai un altro bacio?
La voce è del ragazzo che chiude la fila degli Argonauti. Ha la frontale già accesa, perché là fuori il buio si prenderà ogni cosa. E lo farà presto.
Lei non risponde, ma appoggia le labbra sulle sue.
Ha un minuscolo tatuaggio sulla nuca che le dona da morire.
Rimangono così, incollati per tutto il tempo che resta.
Poi l’uno diventa zero, e la musica esplode.
Gli Argonauti sono in viaggio.
Anche ora, mentre là fuori è solo silenzio e miei tasti urlano così forte che ho paura di svegliare i vicini, loro stanno marciando.
Ci ho pensato per tutta la cena, e non riesco a smettere.
Ho mangiato arrosto e cipolline con un gruppo di atleti cinesi che sorseggiavano Amarone della Valpolicella.
I loro sorrisi erano di pane.
Hanno attraversato l’oceano per bagnarsi le labbra in quei calici, e non sembrano ricordarsi che tra meno di quarantotto ore avranno addosso una trapunta di stelle, e troppa strada da immaginare.
Gli Argonauti marciano ed eroi da settantaquattro paesi del mondo si son dati appuntamento in questo santuario d’ardesia, led, polvere e sassi per sfidare i Giganti.
Presto, troppo presto, anche per loro la musica salirà alta, fino a deflagrare.
Penso al silenzio, in questa notte imbottita di sogni agitati.
E al rumore dei passi di quel ragazzo, sulla linea di partenza.
Non ho nemmeno annotato il suo numero di pettorale. Ma saprò riconoscerlo, se incontrerò il suo sguardo infuocato.
La starà ancora pensando, adesso?
E lei? Sarà riuscita a prendere sonno?
Buon viaggio, Argonauti.
Il Vello d’Oro è proprio qui, dove tutto ha avuto inizio.
Ma, per afferrarlo, dovrete compiere un cammino che nessuno, finora, ha avuto il coraggio d’intraprendere.
Perché, dopotutto, immaginare l’impossibile, chiudere gli occhi e perdersi, è l’unico modo per tornare a casa.